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crazy for football

La nazionale italiana “Crazy for Football”

Come è nato, nel versante sportivo, il progetto Nazionale Crazy for Football.


Di certo, il calcio non è una favola, e non c’è niente di poetico nella malattia mentale. Il calcio è impegno, disciplina, fatica, passione – in questo ordine. La malattia mentale rischia di essere la devastazione dell’individuo e di chi gli sta vicino. La retorica e i luoghi comuni sono proibiti: l’unico luogo comune a entrambi gli argomenti, in questo documentario, è il campo di calcio. – Gaja Cenciarelli

Nel versante sportivo del progetto Nazionale Crazy for Football è centrale l’idea di far diventare gli elementi tipici dell’attività agonistica di alto livello (la selezione, la ricerca della prestazione, il raggiungimento di obiettivi, la preparazione fisica, tecnica e tattica curata da tecnici e preparatori specializzati), veicolo per un potente messaggio antistigma: non solo il calcio (in questo caso il calcio a 5) fa bene, non solo i pazienti psichiatrici hanno diritto di giocarlo, ma possono raggiungere alti livelli di performance, come e più dei cosiddetti “normali” e anzi potrebbero e dovrebbero, nelle giuste condizioni, entrare a far parte delle squadre agonistiche in proporzione al proprio livello, proprio come avviene per i giocatori “sani”.

Usando come serbatoio quel mondo sempre più ampio e organizzato delle tante squadre che, grazie all’impegno di operatori sanitari, volontari e tecnici delle associazioni sportive dilettantistiche, combattono quotidianamente sui campi la battaglia dell’inclusione sociale è stata creata una vera Nazionale, proprio grazie alle preselezioni effettuate in questo tipo di realtà in tutto il Paese.

La prima edizione si era svolta a Osaka nel 2016, un’edizione pilota con solo tre nazionali e una rappresentativa della città ospitante. La vittoria era andata alla squadra di casa, il Giappone, e l’avventura della nostra Nazionale, dalle selezioni fino alla vittoriosa finale per il terzo posto, era stata raccontata dal documentario Crazy for Football, vincitore nel 2017 del David di Donatello e di una menzione speciale ai Nastri D’Argento.

Questi successi, a cui è seguita una discreta visibilità, avevano ancor più convinto gli artefici di quell’esperienza ad andare avanti con il passo successivo, ancora più difficile e ambizioso: organizzare il secondo mondiale, senza sponsor, finanziamenti pubblici né privati.Un’idea un po’ folle ma, visto il contesto, era quasi doveroso…

Ed ecco quindi l’altro importante traguardo: la Dream World Cup, la Coppa del mondo del sogno, disputata a Roma nel 2018. Una piccola parte di un sogno molto, molto più grande. Un sogno realizzatosi il 13 maggio 1978, quando una legge che portava il nome del suo principale artefice, Franco Basaglia, chiuse i manicomi. Ed esattamente, volutamente, quaranta anni più tardi, il 13 maggio del 2018, nel bellissimo Palazzetto dello sport di Roma, nove Nazionali hanno dato vita alla cerimonia d’inaugurazione della seconda Coppa del mondo di calcio a 5 per squadre composte da pazienti psichiatrici.

Con l’aiuto di tante realtà attive nel mondo della riabilitazione psichiatrica su tutto il territorio nazionale e il patrocinio della FIGC (che ha autorizzato la squadra a indossare il materiale ufficiale delle Nazionali) e della Divisione Calcio a 5, in vista del Mondiale, sono state organizzate tre selezioni in tutto il territorio nazionale. A Milano, Roma e Bari quasi duecento ragazzi provenienti da tutta Italia sono stati visionati dal CT e dal suo staff, tutti tecnici specializzati nel calcio a 5, che hanno così potuto scegliere i giocatori necessari a “chiudere” la rosa per il Mondiale.

La dimensione realmente nazionale di questa selezione ha permesso di formare quindi una rosa di sedici giocatori, forti, con capacità calcistiche di alto livello, allenati come una vera squadra, che hanno partecipato a un vero ritiro pre- mondiale, vivendo come una vera Nazionale che si prepara a una Coppa del Mondo.

Perché l’idea di base è proprio questa: questi ragazzi hanno diritto di giocare come gli altri, perché hanno diritto come tutti a fare le cose belle della vita, tra cui lo sport, anche quello agonistico. E se sono bravi devono farlo al livello che gli compete con un’organizzazione e una preparazione atletica e tecnica all’altezza.

Da una parte, quindi, combattere lo stigma: le discriminazioni, i luoghi comuni, gli stereotipi, l’ignoranza che contribuiscono alla marginalità e all’esclusione. Dall’altra dimostrare la grande efficacia dello sport nei percorsi di riabilitazione psichiatrica e ribadire che questi ragazzi possono fare sport come e meglio dei “presunti sani”, trasformando la vergogna in coraggio, in orgoglio, convertendo lo stigma della malattia mentale nello stemma sfolgorante della propria nazione.

Questa Nazionale è diventata un obiettivo, un punto di arrivo, di orgoglio e di uscita dall’ombra per tanti ragazzi, anche per coloro che hanno “solo” partecipato alle selezioni, ma anche un punto di riferimento per tanti psichiatri, operatori e ragazzi che sono attivi nel calcio per le persone con problemi di salute mentale. L’Italia ha vinto tutte le partite ed è diventata campione del mondo, alzando la meravigliosa coppa, opera di uno scultore, anch’esso paziente psichiatrico, che ha raffigurato la Nike 2018, metà donna e metà farfalla, con le sue fragili ali spiegate verso il superamento della malattia.

Non ho nulla contro la parola integrazione, soltanto che, dopo averci riflettuto in questi anni, mi piace sempre di meno. Dal vocabolario Treccani:

«(…) soprattutto nel linguaggio sociale e politico, inserire uno o più individui in un gruppo, o uno o più gruppi in un organismo, in una struttura, in una società costituita, di cui prima non facevano parte o da cui erano esclusi (…)».

Ma questo mi pare il punto dolente: le persone con una disabilità, anche psicosociale, fanno parte della società, non sono loro che si devono “integrare”. La normalità dovrebbe essere che esse lavorino, giochino, allenino, e dovrebbe essere la società politica e civile a rendere questo non possibile, ma naturale. Semplicemente, un centravanti schizofrenico, un dirigente in carrozzina o un allenatore bipolare non dovrebbero essere l’eccezione di poche società virtuose, ma la regola di un calcio normale.

Quando questo succederà, avremmo raggiunto il nostro obiettivo, e potremmo “regalare” la nostra Nazionale alle istituzioni sportive, perché vorrà dire che finalmente la salute mentale sarà diventata parte della società, in ogni sua declinazione. E che avremo finalmente potuto smettere di rincorrere, spesso senza successo, le istituzioni sportive, politiche, amministrative, le realtà economiche per ricevere un riconoscimento, un appoggio o un sostegno, salvo poi magari ritrovarcele accanto ai ragazzi nel momento dei successi e dei riflettori…

“La sanità mentale è un’imperfezione”

Charles Bukowski

Dal libro Crazy for Football di Volfango De Biasi e Francesco Trento:

(…) “Oh, Marco, ovviamente giochiamo contro dei ragazzi che hanno dei problemi di salute mentale, quindi insomma, se qualcuno urla o va un po’ fuori di testa tu lascia correre, ok? Cioè, anche se ti becchi un calcetto di troppo, cerca di non restituirlo. Che poi di solito sono tranquillissimi, però qualcuno è schizofrenico, qualcuno ha manie di persecuzione, ci può stare un momento difficile. In caso, tu trattameli bene”.

Giochiamo la partita, e lo stopper si comporta in effetti benissimo. Mai un fallo da dietro, mai un intervento troppo deciso. Il match, agonistico ma giocato all’insegna del fair play, si chiude con un pareggio che accontenta tutti.

Negli spogliatoi, sotto le docce, stiamo commentando come ogni squadra le occasioni sprecate, i buoni momenti di calcio, le parate del nostro e del loro portiere, quando lo stopper mi raggiunge, con un gran sorriso:

“Oh, bomber, io mi sono trattenuto, come dicevi tu, hai visto?” “Sì”, lo ringrazio. “Impeccabile”.
“Comunque hai fatto bene a dirmelo, perché io a quello due calci li avrei dati. Però poverino, stava veramente male”. “Il sette?”, gli domando.
“No, quello là che marcavo io, madonna, che dramma. Non stava zitto mai”. “Ma dici il centravanti, quello alto?”
“Sì, il centravanti, il nove”. “Quello grosso, con la barba?”
“Sì, quello. Urlava, sgomitava, sbraitava tutto il tempo. Ma che ha? ” “No, niente. Quello è lo psichiatra”.

Autore: ENRICO ZANCHINI, Allenatore ASD Crazy For Football