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linguaggio comunicazione

Linguaggio, scelta e uso delle parole contribuiscono a creare lo stigma intorno alla malattia mentale: il ruolo dell’informazione per favorire un cambiamento culturale

Quando scriviamo o parliamo di malattie mentali e disagio psichico sentiamo dire con frequenza che bisogna combattere lo stigma che le avvolge e che pesa sui malati, ma già la scelta di questa parola e la locuzione con cui le definiamo diventano condanna sociale.


Stigma, chi è costui? E cosa racchiude veramente il significato di questa parola? Parafrasando, personificando e volgendo al presente la famosa domanda di manzoniana memoria c’è da chiedersi perché́, ancora oggi, questa parola venga indissolubilmente associata ai discorsi sulla malattia mentale, laddove di tutto avrebbero bisogno fuorché́ di stereotipi, pregiudizi ed etichette.

Ma di parole che ne scalfiggano l’ignoranza che gli ruota intorno. Stigma è una parola di origine greca che indica i segni che venivano fatti sul corpo per evidenziare attributi moralmente negativi e che, da sempre, assumono un carattere di marchio che etichetta come diverso e inaccettabile un individuo o una classe di individui.

Quando scriviamo o parliamo di malattie mentali e disagio psichico sentiamo dire con frequenza che bisogna combattere lo stigma che le avvolge e che pesa sui malati, ma già la scelta di questa parola e la locuzione con cui le definiamo diventano condanna sociale.

In questo modo ne formalizziamo la colpevolizzazione, e sosteniamo che questi disturbi non hanno rimedio perché permanenti, e inoltre che sono malattie pericolose. Nonostante le malattie mentali siano molto comuni, sono invece ancora associate anche per questo a episodi di discriminazione.

Significato della parola "stigma"

Stigma è una parola greca che indica i segni che venivano fatti sul corpo per evidenziare attributi moralmente negativi e che, da sempre, assumono un carattere di marchio che etichetta come diverso e inaccettabile un individuo o una classe di individui.

Per chi soffre di questi disturbi, per chi è affetto da queste patologie, come spesso accade anche per le loro famiglie, la parola stigma significa quindi già trovarsi addosso una vergogna, un senso di colpa, e conseguentemente a questo avvertire la necessità di isolarsi, se non proprio di sparire.

Quindi l’uso del termine “stigma” finisce per indicare che la diagnosi di malattia mentale, e i comportamenti che la accompagnano, tendono a risvegliare nelle persone atteggiamenti negativi e di rifiuto senza che ci sia una reale conoscenza del problema. Significa negare la dignità della malattia mentale, tanto da non riconoscerne peso e specificità al pari di qualsiasi altra malattia.

Se si ammala lo stomaco, il cuore, i polmoni, le ossa perché non può ammalarsi un organo tanto più complesso come il cervello? Sembrerebbe pleonastico rispondere invece non è così perché nella parola “mentale” lo stigma è di per sé costituente e implicito e, dunque, la ghettizza rispetto alle altre sofferenze del corpo.

Oggi si parla di tante patologie legate al cervello, di neuroscienze, di circuiti cerebrali, sinapsi e neuroni, ma raramente dalle pagine dei giornali, nei servizi televisivi o radiofonici, sui social network si sceglie di parlare e approfondire argomenti psichiatrici quali la depressione, il disturbo bipolare, le nevrosi, le psicosi, la schizofrenia perché queste patologie raccontano innanzitutto sovrastrutture e barriere culturali che non sono state ancora abbattute e quindi diventa più facile e meno impattante sull’opinione pubblica derubricare a più facili e generiche parole quali stress, ansia, ecc.

Così come resistono i pregiudizi nei confronti di chi assume psicofarmaci e/o decide di farsi, come dovrebbe essere, curare dallo psichiatra. Di conseguenza la malattia mentale diventa cosa indegna, e conseguenzialmente senza alcun riscontro oggettivo, una colpa.

E non una malattia spesso curabile come qualsiasi altra. Questo, inoltre, crea un circolo vizioso di alienazione e discriminazione, intese come privazione di diritti e benefici per la persona malata, la sua famiglia e tutto l’ambiente ad essi circostante, diventando spesso la principale fonte di un grave isolamento sociale, di fenomeni di emarginazione e di una protratta marginalizzazione.

Il rapporto tra la salute mentale e l'ambiente in cui si vive

Secondo l’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS), «la salute mentale e molti disturbi psichici comuni sono ampiamente influenzati dagli ambienti sociali, economici, fisici in cui le persone vivono».

L’Organizzazione Mondiale della Sanità spiega da tempo, pur rimanendo inascoltata, come «la salute mentale e molti disturbi psichici comuni siano ampiamente influenzati dagli ambienti sociali, economici, fisici in cui le persone vivono».

In tutto questo come non focalizzare l’attenzione sull’importanza del linguaggio che usiamo quando parliamo della malattia mentale, a partire dall’uso delle parole che scegliamo per parlarne perché sono quelle con cui diamo forma e conosciamo sia il mondo esterno sia quello interiore.

Sono le parole e il linguaggio a costruire la realtà e dobbiamo sempre chiederci quando parliamo e ci relazioniamo con la malattia mentale o il disagio psichico quanto tutti noi contribuiamo a costruire il pregiudizio che c’è intorno ad essa. Comunicare e informare correttamente è fondamentale, ma diventa indispensabile quando si tratta di affrontare argomenti di salute e nella fattispecie di salute mentale.

Paul Watzlawick, psicologo e filosofo, nel suo Pragmatica della comunicazione umana. Studio dei modelli interattivi, delle patologie e dei paradossi, declinando gli assiomi della comunicazione, nel primo sostiene che: «Non si può non comunicare».

La non-comunicazione è quindi impossibile, perché anche quando non parliamo, qualsiasi comportamento abbiamo comunica qualcosa di noi ed è impossibile avere un non-comportamento. Per quanto una persona con la sua passività e i suoi silenzi trasmetta la volontà di non comunicare con un altro individuo, sta comunque inviando un messaggio, e quindi, comunica anche di non voler comunicare. Qualunque cosa fai o dici, qualunque scelta o qualunque atteggiamento assumi, comunica degli aspetti di te stesso agli altri.

Pertanto, non possiamo dimenticare che le parole, il silenzio, il comportamento o l’attività che facciamo hanno sempre valore di messaggio e influenzano gli altri. E più che mai a partire dall’uso delle parole che scegliamo perché sono loro che costruiscono la realtà e noi ne abbiamo comprensione solo attraverso esse. Il linguaggio che usiamo ci definisce, ci dice chi siamo e come la pensiamo su una determinata cosa, su un determinato argomento, su una persona.

Il nostro linguaggio è espressione della nostra identità. E non solo della nostra identità personale, ma anche della nostra identità sociale, culturale, se non addirittura storica e di cui spesso non siamo consapevoli. E anche qui ancora una volta è il linguaggio che ci parla.

Allora come scegliamo le parole? E soprattutto come le utilizziamo quando ci troviamo a parlare della malattia mentale? Non possiamo non sapere che socialmente e culturalmente ci sono parole che fanno bene e parole che fanno male.

In tema di salute mentale e di come comunicarla sui media, ma anche all’interno del contesto famigliare o con gli amici, sarebbe indispensabile un glossario appropriato per ribaltare ed eliminare luoghi comuni, inesattezze, preconcetti che perdurano nei confronti del disturbo e della malattia mentale e delle persone che ne sono affette.

Il contrario dello stigma ha un nome: si chiama conoscenza. Se il cervello, invece di assorbire le associazioni distorte sui disturbi psichiatrici, è consapevole dei reali collegamenti anche in termini linguistici, già siamo di fronte a forma di cura.

Occorre pertanto informare bene le persone, i genitori, i bambini, l’opinione pubblica, ma abbiamo bisogno di formazione qualificata. Bisogna diffondere conoscenza a cominciare dalla famiglia, dalla scuola, dai social e dai vari canali informativi. Sono l’ignoranza e la paura che rallentano non solo il venire a galla dei problemi, ma il perdurare di situazioni distorte e disfunzionali.

A ciò, inoltre, si aggiunge il fatto che l’opinione pubblica tende a perpetuare e a diffondere un’immagine densa di pregiudizi riguardo il malato di mente, descrivendolo come una persona “diversa” e pericolosa, che vive esperienze bizzarre e talvolta incomprensibili, che cammina con occhi fissi perché “imbottito “ di sedativi, anche a causa di tutta una narrativa e una filmografia che hanno incentivato questa idea e la sua diffusione.

E che inoltre contribuiscono a creare un immaginario collettivo in cui anche lo psichiatra viene solitamente descritto come un sadico o definito macchiettisticamente “strizzacervelli”. La gente così ha più paura delle malattie psichiatriche che di un cancro!

Per evitare che questa distorsione accada, la prima cosa da fare è considerare i malati mentali delle persone, unicamente persone con un problema di salute, ma innanzitutto persone perché non è la malattia che definisce la persona. Proprio come avviene comunemente per tutti coloro che hanno una qualsiasi altra patologia.

E anche il linguaggio in questo diventa determinante per marcare una diversità in senso positivo: c’è una grande differenza tra buttare lì, e dire quasi con non calanche: «sono dei matti, dei pazzi, dei fuori di testa», invece di affermare che sono persone affette da un disturbo o da una malattia mentale.

E ancora: c’è differenza tra dire: «quella è depressa» e asserire quella donna soffre di depressione, «quello è schizofrenico» o quell’uomo ha dei gravi problemi psichiatrici con forti disturbi della personalità. È nell’uso che facciamo di queste diverse locuzioni, che si annida la grande differenza: una differenza che consiste innanzitutto nel non essere pregiudiziali, e quindi nel non “marchiare” il malato mentale.

Mi sia concesso un paragone, ma non così iperbolico come potrebbe sembrare: in questo modo di parlare, di raccontare la malattia mentale c’è il rischio di approdare a quel successivo passo logico-linguistico nel definire queste persone – come fecero gli psichiatri, i medici e gli scienziati nazisti – uomini imperfetti, vite indegne di essere vissute.

E, come ben sappiamo, è proprio con questa aberrante convinzione ideologica che sono state sterminate – con l’operazione Action T4 – più di 300 mila persone, sperimentando inoltre su di loro quella tecnica che poi perfezioneranno nel genocidio degli ebrei.

Abbiamo tutti una grande responsabilità, dobbiamo imparare, nessuno escluso, a usare parole che aggiungano valore non che lo sottraggono, parole che accomunino invece di isolare, parole che curino non che ammalano, parole che sensibilizzano e tengano conto del senso e del contesto in cui vengono pronunciate.

Un po’ di lavoro in tal senso è stato fatto nell’ambito della professione giornalistica e per i professionisti del settore con la Carta di Trieste: un documento deontologico per promuovere un’informazione corretta e attuale dei problemi di salute mentale e arginare l’ansia e la paura generate da un modo approssimativo di fare informazione.

Tuttavia, la strada da fare è ancora tanta e anche in salita, se si considera come il sensazionalismo ricercato, soprattutto nei casi di cronaca nera, produca danni incommensurabili peraltro in un Paese come il nostro che continua comunque anche sottopelle a negare la malattia mentale.

La Carta di Trieste è senza dubbio un ottimo strumento per promuovere un dialogo tra le persone con l’esperienza del disturbo mentale, giornalistə e operatorə della salute mentale. Ma soprattutto mette l’accento proprio sulle quelle «parole che fanno bene» per ribaltare quelle «che fanno male».

Come operatorə del settore abbiamo un obbligo: costruire insieme una sorta di glossario ragionato che possa servire da guida a orientarsi nel complesso mondo dell’informazione e della comunicazione intorno alla salute mentale.

Un glossario ragionato, una guida che ci guidi – mi sia concessa l’allitterazione che però rende bene l’idea – nell’uso appropriato delle parole che raccontano e parlano di malattia mentale. C’è bisogno di lavorare alacremente su una nuova e competente alfabetizzazione per mettere fuori uso lo sciatto e pregiudizievole linguaggio quotidiano che colpisce le persone affette da disturbi mentali.

Il rispetto della persona e della sua malattia passa anche, se non soprattutto, attraverso le parole con cui le definiamo. Possiamo con il nostro linguaggio quotidiano, con i nostri articoli, i nostri servizi, con la nostra matita rossa e blu correggere i tanti, troppi errori che vengono commessi nel racconto del disturbo mentale.

Possiamo incidere con il nostro lavoro di professionistə dell’informazione, fare in modo che cambino i comportamenti errati sia in termini nominali sia in termini di consapevolezza del pensiero e della costruzione di una società consapevole che la malattia mentale è alla stregua di qualsiasi altra malattia.

Una società che ha l’obbligo di riconoscere la malattia mentale e di valutarla e accoglierla come una qualsiasi altra malattia. Un obiettivo che è possibile raggiungere attraverso l’uso corretto e reiterato di parole giuste al posto giusto. Dobbiamo e possiamo scegliere le parole per dirlo. Per raccontare e descrivere il disturbo e la sofferenza mentale.

Non possono e non devono essere usate parole come «pazzo o matto», «raptus», «si è suicidato dopo l’abbondono»: con questo modo di parlare, invece di informare correntemente sulla realtà, la deformiamo e non aiutiamo le persone a comprendere e la società a evolversi.

Così come non aiutiamo le persone più fragili nel loro percorso di salute. Dobbiamo fare una scelta di campo che riguarda soprattutto le parole che usiamo: dobbiamo impiegare quelle lenitive, non quelle lesive.

Se è vero che la Legge 180/1978 (la cosiddetta legge Basaglia) ha rappresentato un’importante svolta sanitaria e politica nella cura del disagio psichico, rendendo dignità ai pazienti psichiatrici e alle loro famiglie, ora nell’epoca in cui in cui la comunicazione attraverso i media risulta quasi più pregnante della vita reale stessa, diventa essenziale aprire uno spazio di riflessione condiviso e multidisciplinare proprio sulla comunicazione mediatica che deve essere riservata alla malattia mentale.

Salute mentale e comunicazione mediatica ora più che mai devono essere affrontate con spirito critico e costruttivo. Entrambe queste aree sono andate incontro a rapidi cambiamenti, cambiamenti che rischiano di renderne difficile sia la comprensione che la gestione della malattia mentale.

Tuttavia, sono proprio i cambiamenti che influenzano in modo rilevante la nostra società. Bisogna, quindi, sempre di più, trovare spazi per parlare di malattie mentali con competenza e apertura, così da consentire di sviluppare un pensiero e, di conseguenza, un’azione consapevole e adeguata.

C’è ancora tanto lavoro da fare su questo fronte, dobbiamo riuscire a fare pressione attraverso le parole, quelle adeguate però, per far sì che i mezzi di comunicazione tradizionali e quelli di ultima generazione si mettano al servizio della salute mentale per andare oltre lo stigma e abbattere i pregiudizi, e per creare un’opinione pubblica correttamente informata su questi temi.

A poco servono o serviranno in tal senso delle sporadiche campagne di sensibilizzazione o degli slogan, certo potranno avere effetto sul momento, ma non riusciranno a scardinare nel profondo un modo distorto di leggere e comprendere la malattia mentale.

Ciascuno di noi quotidianamente, direi quasi con un lavoro certosino, deve riflettere su come divulgare correttamente le notizie sulla salute mentale.

Troppo spesso i media non approfondiscono adeguatamente le tematiche legate alla salute mentale e anche questo atteggiamento va ad alimentare pregiudizi e stereotipi dannosi nei confronti delle persone con problemi di salute mentale, oltre peraltro a fare cattiva informazione.

Ci sono situazioni e notizie che richiedono una maggiore accuratezza e cautela nell’essere trattate, perché il rischio di turbare la sfera della personalità è più alto. Cosa che ovviamente attiene a qualsiasi argomento che abbia una rilevanza sociale.

La nostra funzione di giornalistə, di comunicatorə è quella d’informare correttamente per dare a tutti la consapevolezza di poter costruire la propria opinione su qualsiasi tema.

I mass media in generale possono avere grande impatto sull’idea e la percezione con cui le persone costruiscono la loro visione del mondo e da ciò ne deriva una grande responsabilità, da cui nessuno può sentirsi esonerato.

C’è bisogno di formazione, di competenze e di agire. Ciò significa lavorare a una cultura che sappia valorizzare interesse, empatia e partecipazione alla sorte di tutto ciò che significa cura e questo nell’interesse di tutti. È necessario, anzi fondamentale promuovere un nuovo, migliore e più positivo modo di concepire la salute mentale.

Lavorare tutti insieme, operatore del settore, mass media, società civile per abolire ogni forma di pregiudizio al riguardo per produrre un cambiamento culturale che parta dalla diffusione di messaggi costruttivi e informazioni adeguate, che siano anche meno censuranti sul disagio e sul malessere psichico.

Le ricerche dimostrano, infatti, che lo stigma nei confronti del disagio mentale è una barriera che non solo allontana chi soffre dagli altri, ma riduce anche la capacità e voglia di credere che sia possibile ricevere aiuto e supporto.

Le parole e i comportamenti possono favorire e creare una nuova cultura che sia capace di promuovere salute mentale e sensibilizzare la società per abolire i pregiudizi.

La distorsione della percezione nelle persone della malattia mentale nasce dal fare associazioni sbagliate, descrizioni sbagliate, dalla non conoscenza della realtà vera. È quindi frutto di ignoranza.

Il lavoro che può e deve fare una buona e corretta informazione sta nel sensibilizzare l’opinione pubblica al fine di:

  • aiutare le persone a riconoscere i sintomi del disturbo psicologico e, soprattutto, a parlarne;
  • combattere il luogo comune associato ai disturbi mentali, che peraltro scoraggia coloro i quali ne soffrono dal cercare aiuto e terapie efficaci;
  • favorire la fiducia sulle possibilità di curarsi con l’aiuto medico.

È possibile quindi andare oltre lo stigma? Cosa possiamo fare come comunicatorə e operatorə dell’informazione per superarlo? Se il nostro lavoro è racconto di storie e di fatti allora facciamolo usando parole giuste al posto giusto, perché sono molte, troppe le false informazioni che circolano sulle malattie mentali.

Dobbiamo raccontare: che una persona su quattro ogni anno ha esperienza di un problema di salute mentale; che anche se è vero che i problemi di salute mentale possono non scomparire definitivamente, molte persone che ne sono affette però lavorano, hanno famiglia e conducono una vita piena.

Che la malattia mentale non necessariamente ha un decorso negativo: gli studi evidenziano che 1/3 delle persone guarisce completamente, 1/3 mantiene un livello medio di disturbo e riesce a condurre una normale vita sociale, e 1/3 vive invece con una grave disabilità.

La falsa credenza per cui la malattia mentale è sempre una malattia incurabile porta a perdita di fiducia, disperazione, abbandono e logorio dei rapporti interpersonali. Inoltre una informazione non specifica contribuisce a perpetrare stereotipi e isolamento delle persone affette da disagi mentali.

Abbiamo una responsabilità nei confronti dell’uso delle parole: ora, subito e non domani dobbiamo fare in modo che il discorso cambi, cambiando il lessico nei confronti della malattia mentale e del disagio psichico. Si può fare, lo dobbiamo fare.

 

Autrice: BEATRICE CURCI, giornalista.