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INTERVISTA A FEDERICA LA RUSSA, NEUROIMMUNOLOGA, HEALTH COMMUNICATION E MEDICAL WRITER

Di burnout, ambienti lavorativi tossici e competitività malsana in ambito accademico-scientifico parliamo con la dott.ssa Federica La Russa, bloccata dalla pandemia in un contesto lavorativo ad alto tasso di stress che stava mettendo a serio rischio la sua salute mentale.

Federica, tu inizi la tua carriera come ricercatrice in neuroimmunologia, ci racconti in breve come e quando sei approdata negli USA?

Dopo la laurea in Italia, sono partita per l’Inghilterra per un dottorato in neuroscienze, poi conseguito presso il King’s College di Londra nel 2017, dove ho continuato a lavorare un primo post dottorato studiando l’interazione tra sistema nervoso e immunitario nella pelle. Nel 2019, però, volo negli USA per il mio secondo postdoc presso il NIAID (National Institute of Allergy and Infectious Diseases) all’NIH (National Institutes of Health) proponendo un progetto focalizzato sul ruolo dell’innervazione nel linfonodo. Dopo solo un anno dal suo inizio, però, il progetto, subisce un inatteso stop dato che un gruppo competitor stava procedendo esattamente sulla stessa linea di ricerca. Nel frattempo – siamo ormai nel 2020 – arriva la pandemia ed io, come altri colleghi, vengo coinvolta in una nuova linea di ricerca del Dipartimento, che ovviamente riguardava il Covid-19. Il progetto, inizialmente, è partito come sforzo corale del gruppo, ognuno di noi ricopriva un ruolo preciso e gli sforzi erano divisi equamente. Con la riapertura delle attività di ricerca convenzionali, però, il numero di persone dedicate si è drasticamente ridotto e fondamentalmente siamo rimasti in due.

Com’è stato questo “dirottamento” su un progetto totalmente diverso da quello di partenza?

Molto stressante per tanti motivi. Mi sono trovata a lavorare su un progetto importante, ma nel quale non mi identificavo perché la virologia non era il mio specifico ambito di ricerca. Inoltre, a quel punto del mio percorso professionale avevo capito di non voler più proseguire nell’ambito accademico, bensì di volermi spostare verso la comunicazione medico-scientifica. Mi sono, quindi, ritrovata incastrata in un progetto lontano dal mio percorso accademico, e fisicamente bloccata dall’altra parte del mondo dato che, a causa del COVID, non potevo uscire dagli Stati Uniti. In laboratorio si lavorava tantissimo, fino a 10-12 ore di seguito, tutti i giorni anche festivi, con un notevole sforzo fisico dovuto al tipo di esperimenti di cui mi occupavo non solo al bancone, ma anche in stabulario, dove mi ritrovavo a maneggiare un numero molto alto di gabbie. Tra l’altro, mi spostavo di continuo da casa al laboratorio e avevo orari spezzati per supportare le tempistiche degli esperimenti con il risultato che non riuscivo mai davvero a staccare dal lavoro.

All’NIH esisteva una prassi di monitoraggio del livello di benessere/malessere mentale dei/delle dipendenti?

Credo sia importante fare una distinzione tra il mio gruppo di lavoro e l’NIH come ente governativo. L’NIH ha policy e strutture interne finalizzate al supporto della salute mentale dei lavoratori. A disposizione c’erano molte opzioni: momenti di incontro con psicologhe che affrontavano il tema della salute mentale in ambito accademico e, successivamente, relativo all’impatto della pandemia in piccoli focus group, ma c’era anche la possibilità di richiedere incontri singoli. All’interno dell’Istituto poi c’era anche attenzione al garantire momenti di confronto per parlare del proprio sviluppo di carriera sia a livello di skills che di percorsi da intraprendere. Nel macro, quindi, le opportunità di scambio e supporto erano tante. Nel contesto specifico del mio gruppo, però, era molto complesso mettere in atto strategie di reale mantenimento del benessere fisico e mentale. Da un lato c’erano i limiti e difficoltà legate al tipo di professione, che non erano modificabili. D’altra parte, non è responsabilità di nessuno se un esperimento dura 10 ore. Ma le dinamiche di gruppo e con il capo di laboratorio, a mio avviso, hanno limitato molto la qualità delle mie giornate lavorative. Ero circondata da colleghi ambiziosi pronti a barattare la loro work-life balance sull’altare della carriera, apprezzati e lodati da un capo che vedeva il diventare PI come unica strada degna. E poi c’ero io, che volevo sganciarmi da quel contesto, ma non potevo farlo.

Pertanto le strategie di supporto al benessere mentale dei dipendenti risultavano inutili, o poco efficaci?

Se l’azienda mette in piedi strategie e meccanismi di protezione dei lavoratori, ma chi le dovrebbe applicare non lo può fare o non lo fa bene, allora tutto crolla. Il contesto accademico comporta sforzi fisici ed emotivi ineliminabili. Il carico di stress, però, può essere peggiorato o alleviato a seconda delle politiche adottate al suo interno. Nel mio gruppo era considerato normale e scontato lavorare sempre, anche nel fine settimana. C’erano colleghi che dormivano il laboratorio, o in macchina. Era richiesta e pretesa una dedizione assoluta, ovviamente mai in modo ovvio e diretto. Ricordo, ad esempio, quando un Dicembre chiesi qualche giorno di pausa avendo lavorato anche il giorno di Natale e Santo Stefano e dopo un lutto in famiglia. La risposta fu: “Certo sì” accompagnata, però, dall’appunto che sarei stata sicuramente in grado di valutare le mie priorità. Ho fatto molta fatica a capire cosa stesse accadendo sotto ai miei occhi. Arrivavo dal King’s College, un contesto accademico altrettanto prestigioso, ma nel quale il capo aveva molto a cuore il nostro benessere mentale. Il reminder era sempre: “Prima di tutto devi stare bene tu, il lavoro passa in secondo piano”. Negli USA ho trovato un contesto opposto, in cui la produttività era messa al primo posto, a scapito di tutto il resto. Forse in modo inconsapevole, ma sicuramente con dinamiche estenuanti. Io mi sentivo un elemento estraneo, ero l’unica che non era mossa dalla fame di produttività e di farcela dentro il contesto accademico. Il messaggio tra le righe era più o meno questo “Se vuoi far carriera nella ricerca, questo è ciò che ti viene richiesto”. Gli altri si adeguavano, quella carriera la sognavano ed erano disposti a tutto, io non ero su quella lunghezza d’onda, non mi interessava (più) quel percorso e tanto meno farlo in quel modo, ma non potevo permettermi di “fregarmene” e dovevo stare alle regole.

Hai subito, o visto subire mobbing come ritorsione contro cali nelle prestazioni lavorative dovuti a stanchezza o insoddisfazione?

Credo di aver assistito a situazioni rientranti nella definizione, ma in quel momento non ho avuto la lucidità di riconoscerle perché sono comuni, sono considerate la norma. Bisogna partire dal presupposto che certe dinamiche sono contestuali ed è difficile identificarle come problematiche. Chi fa carriera in accademia potrebbe non notarle, o per lo meno non ne rileva la gravità rispetto alle conseguenze che può avere. È un sistema, e come tale spesso viene accettato così com’è. All’NIH erano previsti strumenti di tutela anti mobbing, ma se poi non c’è una reale implementazione nella cultura del tempo e del benessere fisico e mentale delle persone restano lettera morta. Questo ovviamente non significa che ci possono essere contesti illuminati, all’NIH come altrove in accademia, ma in mia opinione questi rappresentano, troppo spesso, isole felici in un oceano di malessere.

Nei momenti di difficoltà nella gestione dello stress, avevi l’impressione di essere lasciata sola a causa della competitività tossica dell’ambiente accademico?

Sì, perché il mio capo non è stato in alcun modo supportivo. Nel momento in cui, prima della pandemia, gli comunicai la mia intenzione di uscire dal contesto accademico, la sua reazione fu molto dura: “Che ci fai qui?”, mi chiese. Per me fu come una dichiarazione di mancanza di stima, laddove i colleghi che invece ambivano a diventare capi di laboratorio “valevano” il suo tempo, il suo supporto. Non eravamo in aperto conflitto, ma tra le righe era chiaro che non provasse particolare stima nei miei confronti. Poi la pandemia è iniziata e mi sono trovata a lavorare ad uno dei suoi progetti più importanti. A quel punto il nostro rapporto è migliorato perché quello che sapevo fare era essenziale in quel contesto e in quel momento critico, ma i ritmi lavorativi sono comunque rimasti estremi con scarsa cura per i momenti di difficoltà fisica o mentale fino a quando il grado di esaurimento delle energie ha raggiunto un punto di non ritorno. A quel punto, sì mi sono “potuta fermare”, ma era decisamente troppo tardi. Ormai ero in completo burn-out.

Ci puoi dire quali sono stati i sintomi fisici che hanno accompagnato il tuo burn-out?

Ho impiegato diverso tempo a capire che il malessere fisico che ho iniziato a provare ad un certo punto fosse legato ai ritmi lavorativi. Ho iniziato progressivamente a far fatica a mangiare, non digerivo più nulla e allo stesso tempo avevo spesso forti mal di testa. In alcuni casi, peggioravano dopo mangiato e questo mi ha portata spesso a non mangiare per tutta la giornata per riuscire a fare gli esperimenti. Poi è subentrata l’insonnia, ad un certo punto dormivo 3-4 ore a notte. Questi disturbi sono durati per circa un anno fino a che un giorno mi sono svegliata con un forte mal di testa che è durato per quasi 40 giorni. Solo allora è diventato accettabile che gli esperimenti passassero in secondo piano. A posteriori, non sarei mai dovuta arrivare a stare così male e so di aver sottovalutato i sintomi fisici, oltre che quelli emotivi troppo a lungo. Purtroppo, appartengo ad una di quelle categorie di lavoratori più vulnerabili al burn-out, perché sono una persona che non retrocede di un millimetro sull’impegno preso anche se non sta bene nel suo contesto lavorativo o se non le piace l’attività che sta facendo. Alcune persone care vedendomi così stanca mi dicevano: “Fai il tuo, ma non il di più, il resto lascialo perdere”. Ma io non riesco a comportarmi così, la mia etica professionale non me lo consente. Resto dedita al lavoro finché ci sono dentro, anche se quel lavoro non lo voglio più fare, non sono una da “quiet quitting”. Avrei dovuto fermarmi prima, ma ho proseguito e di questo mi prendo la mia parte di responsabilità.

Qual è stato il momento più basso, in cui hai capito che non potevi più continuare in quel contesto lavorativo?

Dopo il lungo episodio di mal di testa, con le terapie farmacologiche e la fisioterapia, mi sono rimessa in sesto a sufficienza per rientrare al lavoro. Era l’estate del 2021. In realtà, era una finta ripresa. Nei mesi successivi, infatti, ho continuato a stare molto male fisicamente e anche le difficoltà emotive hanno iniziato a pesare molto sulla qualità delle mie giornate. La competitività continuava ad essere era alle stelle, lavoravo all’interno di un progetto in cui non riconoscevo una motivazione, volevo cambiare lavoro ma non sapevo come fare né dove andare e, nel frattempo, nella mia vita privata c’erano anche stati due importanti lutti in un anno, uno prima e uno durante la pandemia. A Dicembre 2021 su consiglio, per non dire imposizione, della responsabile dell’ufficio training per i postdoc, e in accordo con il mio capo, ho avviato le pratiche per un’aspettativa di tre mesi per motivi di salute. Quello è stato sicuramente il momento più basso della mia esperienza americana, ma anche la spinta gentile di cui avevo bisogno per iniziare a risalire.

Pensi che il fatto di essere donna abbia contato nell’assumerti oneri eccessivi rispetto alle tue forze, spinta dal desiderio di “dimostrare” che meritavi di essere in quella posizione di responsabilità?

In chiave generale, se ci riferiamo al contesto accademico STEM direi che gli stereotipi di genere esistono e hanno conseguenze quantificabili su quanto e come le donne debbano mostrare e dimostrare. Per onestà intellettuale devo però dire che questo gap non l’ho vissuto sulla mia pelle né a Londra e né negli USA. A Londra avevo un capo illuminato, negli USA il mio capo non teneva al benessere di nessuno, un classico maschio alfa con cui era difficile relazionarsi in modo costruttivo indipendentemente dal tuo di genere. Alcuni colleghi maschi ci riuscivano meglio, non perché lui si comportasse in modo sessista, ma perché le donne tendevano ad essere più accomodanti. Non mi vergogno a dire che a me metteva molta soggezione, anche perché da un punto di vista scientifico è un colosso. Come scienziato è eccellente, come leader, in mia opinione, decisamente meno. I suoi modi erano estremamente diretti, spesso brutali, e i rarissimi complimenti avevano un nonsoché di distonico.

Dopo il crollo fisico cosa è successo?

Il periodo di aspettativa ha rappresentato la mia rinascita. Con l’aiuto delle persone a me care e di professionisti della salute, mi sono presa cura della mia salute fisica e mentale. E mentre durante il periodo in cui stavo male ero sfiduciata e non vedevo luce in fondo al tunnel, nel momento in cui ho potuto fermarmi, il futuro ha preso forma. Ho capito che c’era un’altra via per me, che non dovevo pensarmi per forza bloccata in un ruolo che non mi apparteneva. Ma soprattutto ho capito che ero disposta a rinunciare a quel lavoro anche senza averne un altro pronto, pur di non ritrovarmi mai più in uno stato di salute così precario. Per questo, ho deciso di licenziarmi e dedicare il ritrovato benessere alla transizione professionale che avrei voluto avviare già da prima che iniziasse la pandemia, spostandomi verso la divulgazione e comunicazione medica. Non ero puntata specificamente all’Italia, ma sicuramente volevo tornare in Europa e mettere fine all’incubo americano.

Ma hai trovato lavoro proprio in Italia…

Sì, per una serie di fortuiti eventi, ancora prima di comunicare ufficialmente il mio licenziamento, ho incontrato virtualmente il CEO di Digital Dictionary, una società di consulenza all’interno della quale si situa il progetto per cui lavoro adesso, un digital media brand focalizzato su salute e benessere di persone e pazienti. Loro erano alla ricerca di una figura con un forte background scientifico-medicale che volesse mettersi in gioco nella comunicazione e io cercavo qualcuno che mi desse la possibilità di dimostrare che un’accademica, se lo vuole, è e può essere molto altro che una ricercatrice. Oggi mi occupo della supervisione scientifica del progetto e del coordinamento delle attività editoriali, oltre che dello sviluppo di contenuti digitali, un lavoro decisamente più in linea sia con le mie ambizioni di carriera e con i miei valori personali e professionali. Fortunatamente, ho trovato un contesto lavorativo che, per sua natura e cultura aziendale, non comporta gli eccessivi squilibri che ho vissuto nell’ambito accademico e, questo, mi aiuta a mantenere una migliore work-life balance. Non sempre è possibile e, come in tutti i contesti, ci sono dei fisiologici momenti di sovraccarico, ma cerco sempre di farli rimanere tali, periodi circoscritti. Una cosa che ho infatti imparato dall’esperienza americana è quella di identificare i campanelli d’allarme che si attivano quando lo stress da lavoro sta diventando eccessivo, e prendere le contromisure perché non diventi una minaccia per la mia salute. Rispetto a prima sono più attenta ad ascoltarmi e riconoscere i segnali di sovraccarico e ad agire di conseguenza.

Alla luce della tua esperienza, come ci si prende cura della salute mentale dei/delle dipendenti in un’azienda?

A mio avviso, per trovare e mantenere una buona armonia tra vita privata e lavoro preservando il benessere mentale servono due cose: un contesto lavorativo sano e supportivo, e strumenti di auto-analisi che permettano alle persone di capire quali sono i loro reali bisogni. Non tutti affrontiamo i ritmi di lavoro allo stesso modo e non tutti siamo in grado di comprendere sempre di cosa abbiamo bisogno, tanto più se non abbiamo materialmente tempo per porci questa domanda. Pertanto, qualsiasi contesto lavorativo, aziendale e non, dovrebbe investire in strategie che aiutino i dipendenti non solo a gestire meglio il loro tempo, ma anche a capire i propri limiti e le proprie necessità. Ovviamente, questo può funzionare se da parte di entrambe le parti c’è rispetto delle vicendevoli necessità. Credo ci sia molto bisogno di coltivare ascolto ed empatia verso l’altra persona, che sia il proprio manager o un sottoposto, e confrontarsi con onestà. Tendiamo a non dare importanza alla salute mentale se non quando non c’è più quando la salute delle persone dovrebbe essere considerata un obiettivo primario, per il singolo e per l’azienda.

Dopo il 2020 molte persone hanno lasciato il lavoro “storico” (dimissioni di massa), altre lo hanno ridotto al minimo sindacale in termini di impegno (quiet quitting). Ma forse il fenomeno più peculiare in termini sociali è stata la tendenza a cambiare l’approccio lavorativo anche in modo rivoluzionario rispetto alla propria storia professionale e di studi. Ora sembra che questa ondata di cambiamento si stia già ritirando. Stiamo perdendo un’occasione?

Credo che le persone che erano pronte a mettere in discussione il proprio stile di vita prima del 2020, grazie alla pandemia, abbiano semplicemente accelerato questa decisione. Altre persone, però, probabilmente hanno fatto delle scelte di cambiamento più dovute alle contingenze, non perché sentissero il reale bisogno di cambiare il loro approccio al lavoro. Credo, però, che la pandemia sia servita a rendere le persone più simili tra di loro, facendo emergere la consapevolezza che di salute mentale ci dobbiamo occupare tutti, e non solo alcune categorie. La salute mentale è diventata, e direi finalmente, un tema centrale. Anche chi non aveva idea di cosa significasse avere un disagio psicologico o emotivo, per la prima volta ci si è trovato di fronte, e questo ci ha reso un po’ tutti uguali. Pensiamo, ad esempio, al fatto di non poter stare vicini alle persone care e alla sofferenza che ne è derivata, o di non poter fare ciò che si desiderava perché fisicamente impossibilitati a spostarsi, ma anche alla riscoperta del valore del tempo, che ahimè non è infinito. La pandemia dovrebbe fungere da reminder, per aumentare il grado di empatia verso i bisogni e le fragilità degli altri, ma anche continuare a chiedersi per cosa valga la pena “correre l’extra mile”, nella vita privata così come nel lavoro. 

 

Intervista a cura del Direttore Scientifico Prof. Sergio De Filippis, e della Responsabile Editoriale Dott.ssa Paola Perria.