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IL GIAPPONE E L’ORIGINE DELL’HIKIKOMORI

Scopriamo come e perché il Paese del Sol Levante ha fatto da culla ad un disagio che si sta diffondendo in tutto il pianeta

HIKIKOMORI: ORIGINE E CLASSIFICAZIONE

Hikikomori: nome, origini, definizione

Il contesto giapponese

Hikikomori: un fenomeno solo maschile?

Hikikomori primario e secondario

Il rischio di suicidio

HIKIKOMORI: L’AUTORECLUSIONE COME SCELTA DI VITA, DAL GIAPPONE AL RESTO DEL MONDO

Hikikomori è un NOME che spiega una scelta di vita. Non un asettico termine medico-scientifico che definisce una patologia, ma una combinazione di vocaboli che – in modo performativo, chiaro ed efficace – indicano quelle azioni volontarie che sono all’origine di un fenomeno estremamente complesso e ricco di sfumature. Il termine hikikomori è giapponese, infatti, è formato da due ideogrammi: “hiku”, che significa ritirarsi, e “komoru” che vuol dire “isolarsi”. Questa definizione pertanto indica una persona che volontariamente decide di escludersi dalla vita sociale e di recludersi nella propria stanza senza più uscire. Neppure per mangiare. Il sempre più numeroso esercito degli e delle hikikomori è, appunto, una fetta sottilissima, ma non per questo trascurabile, di società che si autodetermina nella volontà di non farne parte.

Partito, quindi, dal Giappone, dove gli hikikomori rappresentano oggi circa l’1,2% della popolazione1(con un trend in forte crescita), il fenomeno del ritiro volontario si è diffuso a macchia di leopardo nel resto del mondo, soprattutto nei Paesi ad alto reddito, tra cui l’Italia.

L’ORIGINE

Negli anni settanta del novecento, ben prima dell’avvento di internet, in Giappone vengono registrati i primissimi casi di hikikomori, intesi come persone che manifestano una forma particolarmente severa di ritiro sociale volontario2.

Nel 1998 lo psichiatra giapponese Saitō Tamaki utilizza per la prima volta il termine hikikomori per descrivere una “nuova” categoria di pazienti che per scelta decidono di non uscire dalla propria stanza e ritirarsi dalla vita sociale per almeno sei mesi, ma che non presentano sintomi psichiatrici concomitanti. Negli anni 2000 il termine hikikomori viene utilizzato anche nei testi psichiatrici ufficiali giapponesi, sebbene non come sindrome specifica, e si moltiplicano gli studi sul fenomeno, che nel 2010 viene definito periodo della vita di sei mesi o più in cui una persona si esclude dalla vita sociale e relazionale manifestando al contempo sintomi di stress e di deperimento fisico3, con insorgenza tipicamente durante l’adolescenza o la prima giovinezza.

In questi anni il Ministero della Salute, del Lavoro e del Welfare giapponese (MHLW) stila un documento aggiornato sugli hikikomori nel Paese allargando il periodo medio di ritiro a tre anni e includendo l’età media di insorgenza in un range variabile tra i 16 e i 30 anni. In questa fase degli studi, viene anche identificata una forma primaria di hikikomori, svincolata da altre sindromi psichiatriche, e una forma secondaria che insorge in un quadro di comorbidità.

Hikikomori sono:

“Coloro che si recludono nella propria abitazione per almeno sei mesi, con esordio nella seconda metà del terzo decennio di vita, e per i quali altri disturbi psichiatrici non sono sufficienti a spiegare il sintomo primario del ritiro”

(Tamaki Saitō, lo psichiatra che per primo coniò il termine hikikomori nel 1998)

IL CONTESTO GIAPPONESE

Ma perché proprio il Giappone? Quale speciale contesto sociale e culturale presenta il Paese del Sol Levante per essere stato culla di un disagio di tale drammatica portata esistenziale? L’autoreclusione manifesta infatti la volontà, da parte di chi la pratica, di portarsi fuori da qualunque possibile percorso di vita “tradizionale” rifiutando di conformarsi alle regole che questo comporterebbe. Un’esistenza passivamente condotta entro le mura domestiche, di tipo “parassitario”, implica pertanto un’implicita ribellione ai ruoli e alle carriere imposti/proposti agli individui a seconda della loro estrazione socio-economica e culturale. Ruoli e carriere che, in Giappone, sono rigidamente codificati, e che prevedono percorsi preformati e improntati ad una estrema competitività che inizia fin dalla scuola primaria. L’hikikomori è soprattutto considerato un fenomeno socio-culturale, sebbene, come vedremo, esistano diverse correnti di pensiero a proposito della sua classificazione (ad esempio come sindrome psichiatrica vera e propria4), e in parte si spiega proprio contestualizzandolo nella sua patria d’origine. Un Paese votato alla perfezione, e in cui il fallimento (scolastico, lavorativo, matrimoniale ecc.) ha uno scarsissimo margine di tolleranza, e, infine, in cui per cultura esiste un fortissimo stigma nei riguardi delle patologie mentali e psichiatriche, diventa il terreno di coltura ideale per l’hikikomori.

Molti degli hikikomori che abbiano iniziato ad auto isolarsi in età precoce, sono poi stati vittime di bullismo. Sebbene la violenza nelle scuole sia un problema trasversale e diffuso in tutto il mondo, in Giappone, nonostante l’attento controllo delle autorità scolastiche, appare in costante crescita, tanto che incidenti riconducibili a comportamenti persecutori e aggressioni di vario tipo hanno interessato nel 2019 l’83% delle scuole (fonte Nippon.com).

Esiste un altro fattore da considerare che ha a che vedere con la storia e la cultura del Giappone: una generale propensione all’” eremitaggio” e alla vita ritirata. Le interazioni sociali sono infatti regolate da convenzioni antiche e paludate, che rendono faticosi e distaccati i rapporti interpersonali. Non è un caso se gli e le hikikomori siano prevalentemente persone per natura timide, ansiose e introverse. Le storie di artisti, studiosi, e semplici individui che hanno scelto di vivere e lavorare senza contatti diretti con altri esseri umani, estraniandosi dal mondo, sono tantissime, e peculiare è il caso delle donne che non sposandosi e non lavorando, trascorrono intere esistenze pressoché chiuse in casa, ad occuparsi esclusivamente delle faccende domestiche (Kajitetsudai). Non troppo diversa la condizione delle casalinghe sposate, i cui mariti trascorrono giornate intere fuori casa, e i figli (per lo più uno), a scuola. La solitudine è quindi condizione diffusa, se non una normalità, certamente non un’eccezione5 in un Paese che, come l’Italia, seppur sovrappopolato conosce un netto declino nella fecondità. Scivolare verso una sorta di hikikomori naturale è poi problema crescente nella popolazione anziana delle grandi metropoli, un dramma sociale di cui il governo giapponese è ben consapevole.

Sono pienamente d’accordo sul definire il fenomeno in questione una sindrome psico-sociale, ma descriverlo solo legato al fallimento in ambito scolastico e alle aspettative della famiglia mi sembra molto riduttivo e fortemente legato ad alcune caratteristiche della cultura giapponese dove il fenomeno è stato descritto per la prima volta con questo termine

Dall’intervista al professor Ignazio Ardizzone, neuropsichiatra infantile ed esperto di hikikomori italiani

HIKIKOMORI: UN FENOMENO SOLO MASCHILE?

Le donne hikikomori sono state sicuramente sottostimate fin dai primi studi sul problema. Inizialmente, infatti, i casi accertati di autoreclusione volontaria riguardavano individui maschi. Per questo motivo, tra i fattori di rischio vi era proprio il genere maschile, inteso quindi sia come sesso biologico, che come genere socialmente identificato. Secondo stime del governo l’80-90% degli hikikomori è uomo. Gli uomini giapponesi più a rischio di diventare hikikomori sarebbero pertanto persone con caratteristiche precise: giovani adulti, con alle spalle carriere scolastiche/lavorative fallimentari, e/o con storie di depressione, ansia, fobia sociale, sindromi schizofreniche e altre condizioni/patologie mentali e dell’umore. Ma le cose stanno davvero così?

Secondo gli studi e le statistiche epidemiologiche riferibili ai decenni passati – e sempre restando in terra giapponese – il tipico hikikomori è quindi maschio, con una proporzione uomo-donna di 4:1, giovane (tra i 20 e i 27 anni), spesso il figlio maggiore di famiglie benestanti, in cui non si pone il problema economico6. Farsi mantenere, infatti, è la condizione immodificabile dell’hikikomori, che si rifiuta di entrare nel circuito lavorativo e produttivo della società. Le donne giapponesi hanno una spinta decisamente inferiore a realizzarsi attraverso una carriera professionale, e se per loro è più comune – come abbiamo visto – fare una vita ritirata e senza sbocchi sociali, forse questa è una delle ragioni per cui il loro rifugio in autoreclusione è meno percepito come un problema, e quindi sotto diagnosticato. Quante hikikomori più o meno volontarie esistono in Giappone? Si comincia a delineare un fenomeno della cui complessità dobbiamo prendere atto. Ogni hikikomori è dunque un caso a sé stante, che si presenta con sfaccettature diverse a seconda del contesto socio-culturale in cui nasce. Perché i fattori ambientali e i condizionamenti che gli individui – maschi e femmine – subiscono e che possono costituire fattori di rischio per l’autoreclusione, variano di Paese in Paese.

Tornando nella terra dei samurai, occorre altresì distinguere gli e le hikikomori per età, perché se è vero che la maggioranza dei casi riguarda giovani adulti, vi sono casi certificati di un esordio molto più precoce, che affonda nell’età dell’adolescenza (15-16 anni). In questi casi tra i fattori di rischio e precipitanti predittivi di una futura gravità del disturbo vi sono una personalità ansiosa/depressa, una mancanza di comunicazione tra genitori, il soffrire di complessi fisici, e una dipendenza dal web7. Abbiamo visto che per arrivare ad una diagnosi il confino entro le mura della propria stanza deve perdurare per sei mesi, e occorre precisare che in genere ci vogliono almeno quattro anni prima che i prodromi sfocino nell’hikikomori conclamato. Il giovane hikikomori si presenta come nichilista e apatico, senza ideali, senza spinta interiore, sopraffatto dal terrore di interagire con altre persone, e di dover dimostrare interesse per qualsivoglia attività. Ci sono, però, molti fattori che possono aver concorso a questo tipo di deriva comportamentale, e che possono essere sia di natura ambientale/esogena, che endogena, e quindi legata a precisi aspetti della personalità.

HIKIKOMORI PRIMARIO E SECONDARIO

Una delle maggiori difficoltà che riguarda il fenomeno degli e delle hikikomori e la sua classificazione medica. Questo problema si è posto fin dal principio, essendo difficile incasellare un comportamento pieno di variabili come risultante di uno spettro di disturbi psichiatrici, o se invece studiarlo come “semplice” fenomeno sociale. Senza, quindi, inserirlo ufficialmente nel DSM-V (Manuale Diagnostico e Statistico dei Disturbi Mentali) come sindrome psichiatrica da disturbo dell’umore o della personalità. Nella prima definizione di hikikomori del 1998, lo psichiatra Saitō fa un identikit molto preciso del tipico autorecluso, ovvero, come abbiamo visto, di una persona giovane senza precedenti e concomitanti disturbi mentali. Tuttavia, da allora gli studi si sono moltiplicati, il fenomeno è esploso anche a livello mondiale oltrepassando i confini giapponesi, e oggi vi è una predominanza di psichiatri concordi nel differenziare un hikikomori primario da uno secondario.

“Alcuni autori sostengono che la definizione di Hikikomori secondario dovrebbe essere usata se è presente una condizione di comorbidità che almeno in parte spieghi la sindrome, mentre in assenza di concomitanti condizioni psichiatriche si dovrebbe preferire il termine hikikomori primario”.8

L’estrema eterogeneità del problema ha spinto gli studiosi successivi a descrivere le tipologie di hikikomori in base non sono alla concomitanza con altri disturbi psichiatrici o dell’umore, ma anche a trovare i punti di connessione tra le due macro classificazioni. Infatti ciò che non è ancora chiaro il rapporto di causa-effetto tra le due condizioni, tuttora oggetto di osservazione e studio. Occorre capire se l’hikikomori sia il possibile sintomo di una condizione psichiatrica preesistente o in fase di esordio, o se l’hikikomori stesso porti poi allo sviluppo di sindromi psichiatriche di altra natura. Tra i disturbi che con maggiore incidenza si associano all’hikikomori si segnalano:

Schizofrenia e sindromi psicotiche. Non è raro che persone con questo tipo di disturbo mentale si rinchiudano in casa senza più uscire, vittime delle loro allucinazioni e ossessioni.

Depressione primaria, nonché le fasi depressive nel disturbo bipolare della personalità.

Disturbi d’ansia, e in particolare ansia/fobia sociale. Si tratta dei fattori di rischio più comuni e diagnosticati nei casi di hikikomori in Giappone. Fobia sociale, disturbo d’ansia generalizzato, paura dell’altro sono condizioni comuni nei giovani giapponesi, soprattutto maschi, e catalogati come sindrome specifica di natura socio-culturale nel DSM-IV-TR.

Disturbi della personalità (paranoide, schizoide, borderline, narcisistica, dipendente, antisociale ecc.).

Disturbo da stress post traumatico. In questo caso il più comune evento traumatico associato all’insorgenza dell’hikikomori specialmente in età giovanile e adolescenziale è l’essere stati vittime di bullismo. La violenza fisica/verbale, le umiliazioni e l’emarginazione sofferte in età scolare da parte di coetanei e pari è considerata un forte trigger di hikikomori, come già visto.

Disturbi dello spettro autistico. Anche in questo caso, specifiche caratteristiche di alcune forme di autismo, come, ad esempio, la sindrome di Asperger, caratterizzate dalla difficoltà di “lettura” delle emozioni altrui, e dal senso di solitudine/estraneità nei confronti dei propri simili, possono portare verso il ritiro volontario9.

IL RISCHIO DI SUICIDIO

Una delle principali paure dei familiari di persone hikikomori, è che il ritiro volontario, specialmente se iniziato in età adolescenziale e indotto da episodi traumatici come il bullismo o associato a sindromi psichiatriche concomitanti, possa sfociare nel suicidio. Quando è reale questo rischio?

I dati sono controversi. Se da un lato la condizione di hikikomori può essere inclusa tra i sintomi precursori della scelta suicida, dall’altro alcuni studiosi considerano il ritiro volontario e la reclusione nella propria stanza come un’alternativa al suicidio stesso. Un modo per nascondersi e sparire dal resto del mondo, mantenendosi in vita. Va però chiarito il diverso significato e valore che viene attribuito al gesto suicida nella cultura giapponese rispetto a quella italiana. Nel nostro Paese, infatti, il suicidio è fortemente stigmatizzato per ragioni di tipo cultural-religioso, e semmai si associa a comorbidità psichiatriche tra cui la depressione maggiore. Nell’hikikomori primario, invece, il soggetto che decida per l’autoreclusione mantenendo contatti virtuali con il resto del mondo tramite connessione internet, tende a permanere in questa condizione non vissuta come spiacevole, ma, anzi, percepita come scelta esistenziale del tutto accettabile. Il distacco dall’” altro”, sia esso il familiare come il perfetto estraneo, rappresentano lo scopo da perseguire, e non un limite tale da produrre dolore e, conseguentemente, desiderio di porvi fine. Il vero dramma dell’hikikomori, sta tutto qui.

Questi pazienti possono fare gesti autolesionistici solo nel momento in cui, ad esempio, genitori disperati invadono il loro spazio, staccano i fili del computer, interrompono rituali, compulsioni. (…) Se non esiste tempo, angoscia del presente e del futuro, se non esiste l’altro, se non esiste profondità, se non si soffre per gli altri compresi i propri genitori e si vive nel non umano l’idea del suicidio non viene neanche considerata”.

Professor Ignazio Ardizzone, neuropsichiatra infantile ed esperto di hikikomori

Fonti:

1Hamasaki, Pionniè Dax, Dorard, Tajan, hikida on “Identifyng Social Withdrawal (hikikomori) Factors in Adolescents: Understanding the Hikikomori Spectrum” on Child Psychiatry & Human Development september 2021
2Ship, Thibault, Beauchamp-Chatel, Kisely on “Internet addiction, hikikomori syndrome, ad the prodromal phase of psychosis”, Psychiatry March 2016
3Yukiko, Pionniè-Dax, Dorard, Tajan, Hikida on “Identyifing Social withdrawal (hikikomori) factors in adolescents: understanding hikikomori spectrum” Child Psychiatry & Human Development, 2021
4Teo, Gaw “Hikikomori, a Japanese Cultur-Bound Syndrome of Social Withdrawal? A proposal for DSM-V” on
The Journal of Nervous and Mental Disease: June 2010 – Volume 198 – Issue 6 – p 444-449
5Kato, Kanba, Teo “Hikikomori : Multidimensional understanding, assessment, and future international perspectives” on PCN Frontier Review May 2019
6Alan R. Teo “A new form of social withdrawal in Japan: A review of hikikomori”, published on-line in 2009 and Int J Soc Psychiatry. 2010 Mar; 56(2): 178–185.
7Hamasaki, Pionniè Dax, Dorard, Tajan, hikida on “Identifyng Social Withdrawal (hikikomori) Factors in Adolescents: Understanding the Hikikomori Spectrum” on Child Psychiatry & Human Development september 2021
8Ship, Thibault, Beauchamp-Chatel, Kisely on “Internet addiction, hikikomori syndrome, ad the prodromal phase of psychosis”, Psychiatry March 2016
9Kato, Kanba, Teo “Hikikomori : Multidimensional understanding, assessment, and future international perspectives” on PCN Frontier Review May 2019